13 ottobre 2022
Dinamici, efficaci, ma soprattutto smart. I millennial stanno investendo (con successo) nella terra, fondando imprese orientate allo scopo.
Grazie all’effetto dei social media, questo mestiere un tempo snobbato sta oggi guadagnando sempre più follower.
Prima c’erano avvocati, medici, ingegneri. Poi sono arrivati chef, stilisti, influencer. Il tempo è passato, così come queste mode, ma in cima alla piramide restava un mestiere che nessuno aveva il coraggio di intraprendere: l’agricoltore.
Eppure, qualcosa sta cambiando. Nel 2020, l’anno dello scoppio della pandemia e del primo lockdown, su 86 mila imprese fondate in Italia da giovani under 35, oltre 6 mila erano attive nei servizi agricoli, subito dopo il Commercio al dettaglio (oltre 10 mila) e l’Edilizia specializzata (oltre 8 mila).
I giovani italiani sanno cosa stanno facendo, più dei loro coetanei europei. Secondo gli ultimi dati Eurostat, le aziende agricole guidate da under 35 in Italia generano molta più produzione standard per ettaro rispetto ai principali Paesi europei: +36% rispetto alla Germania, +57% rispetto alla Francia, +60% rispetto alla Spagna.
I giovani agricoltori italiani fanno meglio anche dei loro connazionali over 55, con una resa per ettaro superiore del 40% (4.964 contro 3.546 euro/ettaro). Anche se il numero di aziende guidate dai più anziani è maggiore in termini assoluti, in media le loro aziende sono significativamente più piccole rispetto a quelle gestite dai giovani. In sintesi: i giovani agricoltori italiani sanno gestire aziende più grandi in modo più efficiente.
Se fare l’agricoltore rende abbastanza bene, perché la rivoluzione procede così lentamente? «Per fare la rivoluzione agricola bisogna prima attivare una rivoluzione culturale», spiega Davide Scaravilli, giovane agricoltore che fa parte del progetto Boniviri. Finché si assocerà la figura dell’agricoltore all’idea di una persona povera, i giovani continueranno a snobbare la terra. «Bisogna trasmettere il messaggio che l’agricoltura, nonostante le difficoltà, è un settore bellissimo su cui vale la pena investire, innovare, per ottenere soddisfazioni e ritorni economici. È una questione di reputazione, e dobbiamo lavorare tutti insieme per cambiarla. Questa è la nostra sfida più grande; vinceremo solo se impareremo a fare rete». Il problema di reputazione, insomma, è prima di tutto culturale. Cambiare si può, facendo rete e imparando a usare il (potentissimo) strumento dei social media.
Dinamici, efficaci e soprattutto smart. Come mostra anche un recente articolo del Financial Times, la nuova generazione di agricoltori sta conquistando centinaia di migliaia di follower sui social. Il ventitreenne Will Young – noto anche come “Farmer Will” – ne ha 900.000 su TikTok, Jessica West (Miss Farming) e Drew Steel (@dr3wmeister) hanno un pubblico simile. Su queste piattaforme raccontano quotidianamente le loro giornate di lavoro: dalle mucche al latte, dai campi da arare alle pecore da tosare. Nell’era della “Great Resignation”, in cui sempre più giovani lasciano lavori ben retribuiti alla ricerca di una vita più equilibrata, il mestiere dell’agricoltore appare sempre più “cool”.
La spinta che porta i giovani a investire nella terra è autentica e profonda. È una questione di sogni. Come per Giovanni Messina, che continua il progetto del padre per una viticoltura migliore sulle pendici dell’Etna, o per Roberto Carbone, che ha scelto di restare in Sicilia piuttosto che trasferirsi al Nord, lanciando un’azienda di spezie ed erbe aromatiche. Un’impresa deve generare soddisfazione economica, certo, ma soprattutto un impatto positivo: è questo il motivo per cui molti giovani stanno decidendo di lasciare lavori che non amano, anche se ben pagati, per provare a risolvere i problemi della nostra società.
La Impact Revolution, come la chiama Ronald Cohen nel suo libro Impact. La rivoluzione che sta cambiando il capitalismo. Un nuovo modello economico che mette l’impatto – ambientale e sociale – al centro dello sviluppo aziendale. In Italia, un’azienda strutturata in questo modo si chiama “Società Benefit” e spesso è gestita proprio da giovani. «Il modello profit-with-purpose», scrive Cohen, «è il segno distintivo della generazione dei millennial. È una rivoluzione dolce ma inesorabile, come mostrano i numeri delle Società Benefit in Italia, cresciute molto durante il periodo pandemico e tra queste, Boniviri rappresenta uno degli esempi di maggior successo».